Profilo artistico

Sono nata e ho vissuto fino alla adolescenza a Bolzano, terra di confine e città bilingue. Due culture, quella italiana e quella tedesca, che si incontravano ma più spesso si scontravano. Ho frequentato il Liceo Classico, quello italiano, e contemporaneamente il Conservatorio “C. Monteverdi” che invece era bilingue, una vera oasi creativa.
Ma, stranamente, era il mondo delle immagini quello che più di tutto mi coinvolgeva e mi risuonava, e appena mi fu possibile iniziai a frequentare gli studi di pittori e scultori incantata dal loro senso di libertà e autonomia, dal loro gioire della propria fonte interna. “Voglio essere come loro” mi dicevo. Certo, erano bruschi, gli artisti, e spesso introversi, ma percepivo chiaramente il loro amore per l’umanità. Non per questo o quell’individuo, ma per l’essere umano in generale di cui rappresentavano dimensioni universali. Solo molto più tardi ho sentito raccontare con chiarezza e con poesia che l’arte parla di ciò che non è, ma che potrebbe essere.
Lasciai gli studi del pianoforte quasi a ridosso del Diploma, me ne andai di casa per frequentare l’Università, lavorando. Volevo essere sola e volevo studiare. Volevo capire la storia e il pensiero degli esseri umani. Uscii dalla Facoltà di Storia e Filosofia con una tesi sulla stregoneria e con più voglia che mai di sfidare me stessa.
E così ecco nel 1985 la mia prima mostra, incerta e inquieta, a Modena, poi a Bologna, Trento, Mantova, Milano, Firenze, Roma, Napoli… e poi sempre più ravvicinate, personali, collettive, Fiere d’Arte, esposizioni fuori Italia, in Svizzera, Belgio, Spagna, Germania, Stati Uniti, Australia… Cento personali? Molte molte di più… e soprattutto mille e mille incontri con pittori, scultori, incisori, fotografi… Tanti rapporti, tanti stimoli. E poi le gallerie, quelle che ti invitano per una sola personale, quelle che ti portano alle Arti Fiere, quelle che ti espongono con i grandi nomi per un confronto tra generazioni, quelle che “però la presentazione te la scrive il critico di galleria”, quelle che “faccio una eccezione per te perché le donne non danno affidamento”… E poi i giornalisti, i direttori delle riviste d’arte, i curatori, gli appassionati e il pubblico che ti segue nelle mostre e nelle storie che racconti.
Un curriculum di tutto rispetto, il mio, con più di venti cataloghi, interventi in convegni d’arte, copertine di libri di psichiatria, filosofia, poesia e opere in collezioni pubbliche, private e Musei…
Ma al centro, sempre, le infinite domande sull’immagine e la sua origine, sul pensiero e sulle dinamiche interne. Al centro, a partire da un caldo giorno di giugno del 1986, l’innamoramento senza confini per una ricerca rivoluzionaria sull’essere umano e sulla creatività: la Teoria della nascita di Massimo Fagioli. Di fronte alla mia tormentata vita irrompe l’idea che l’uomo nasce sano. Poi eventualmente si ammala se oppresso da rapporti violenti. Ma nasce sano e, se si ammala, può guarire. E io volevo stare bene, anzi volevo stare benissimo.
Nel 2010 inizia l’avventura collettiva di creare una Associazione d’arte, IPAZIA, di cui sono tutt’ora Direttore Artistico e di misurarmi in modo nuovo con colleghi e istituzioni. La mia “militanza” solitaria inizia ad intrecciarsi all’impegno sociale e il fare immagini si unisce sempre più spesso al racconto delle  realtà interne che cerco di far emergere.
Conoscenza, mondo inconscio, realizzazione.
A questo punto però lascio la parola a stralci di recenti testi critici e di interviste, oltre ad un video legato ai miei trentacinque anni di vita artistica. Per chi vuole conoscere LE tappe salienti del passato faccio seguire tre interviste in cui, per l’intelligenza affettiva delle domande, la mia “fatica” a verbalizzare è diventata la possibilità di riconoscere a me stessa l’avventurosa strada percorsa, e dire un grazie grandissimo a chi mi ha amato. Un grazie infinito a chi mi ha liberato dall’angoscia.

 

Alcune riflessioni e relative domande rivoltemi da Cinzia Folcarelli (19 settembre 2021) in occasione della mostra “Due segni rossi”, Cartiera Latina, Appia Antica Roma, (4-19 settembre 2021). Di seguito l’intervista completa.

– Artista e filosofa, Roberta Pugno è la “pittrice dell’invisibile” e la sua pittura “nasce da dentro”. Il pensiero irrazionale affascina da sempre la pittrice, che ama indagare la psiche umana e le sue manifestazioni. Vieni definita la “pittrice dell’invisibile”. Perché?
– Sono nuclei di pensiero quelli che Roberta Pugno materializza sulla tela. Trasformare in immagini idee e pensieri è molto difficile. Lei riesce a farlo creando opere fortemente presenti, dense e coinvolgenti, caratterizzate dalla sua personale e inconfondibile cifra stilistica. Nella tua ricerca artistica l’interiorità umana viene indagata da molteplici punti di vista. Come riesci a materializzarla nelle tue opere?
– Nei suoi lavori, dal forte impatto visivo, l’artista materializza il pensiero di grandi donne e uomini del passato, figure mitologiche come Gilgamesh, filosofi come Giordano Bruno e Ipazia d’Alessandria, poeti come Giacomo Leopardi, drammaturghi come Willian Shakespeare, o figure più recenti come lo psichiatra Massimo Fagioli, ma anche il pensiero degli uomini preistorici, degli animisti e degli sciamani. Ti sei confrontata e ti confronti con grandi donne e uomini del passato. Quale è il tuo approccio verso di loro e verso le loro riflessioni filosofiche, visto che sei una filosofa tu stessa?
– In tutte le sue opere trionfano la materia, la terra, l’aria, il fuoco, il suono, il tempo, il sole, l’energia, sia mentale che fisica. In queste, come del resto in tutti i suoi lavori, il colore è protagonista. Il colore che invade la tela attraverso stratificazioni e velature dipinte da mani sapienti e sicure. Ogni tonalità di colore scelta sembra collegata ad una emozione rappresentata. È così?
– Ma il colore da solo, senza la luce (e l’ombra), non riuscirebbe a materializzare in modo così forte i soggetti scelti dalla pittrice. È proprio l’unione di entrambi che fa emergere dallo sfondo le figure e i simboli scelti per essere protagonisti. In particolare i volti, che emergono tridimensionalmente dal supporto bidimensionale della tela, sono atavici e moderni al tempo stesso, catturano lo spettatore con il loro fascino e la loro potenza. La luce che vediamo nei tuoi dipinti è collegata alla “luce della nascita”, (una nascita che per te è sempre positiva), come teorizzato da Massimo Fagioli nelle sua ricerche?
– Il sogno, l’inconscio e la realtà non tangibile sono temi a lei cari. E poi l’infinito, quello di Leopardi ma anche quello di Ipazia e di Giordano Bruno, quello delle linee geometriche che si ritrovano in tante sue opere, un infinito che è il filo conduttore della sua poetica e della sua ricerca dell’altro e della verità oltre la vita. Figurativo che sconfina nell’astratto e astratto che sconfina nel figurativo… nei suoi dipinti luoghi, sensazioni, emozioni vengono percepiti all’unisono, in una epifania di luce e colore in grado di strappare lo spettatore dalla materialità della contemporaneità verso il mistero e il largo respiro dell’immateriale. In particolare le tue opere inducono lo spettatore ad immergersi in un mondo fluido, fatto di luci e ombre che creano, apparentemente dal nulla, forme e volti. Usi una tecnica molto personale che è parte della tua cifra stilistica. Senza svelarci giustamente troppo i tuoi “segreti” puoi raccontarci come e perché hai scelto di esprimerti in questo modo?
– Nella ricerca delle “ventuno” parole di Massimo Fagioli (L’Asino d’oro edizioni, Left 2016-2017) hai trovato nuove fonti di ispirazione. In particolare ti sei concentrata sul suono e il passaggio dalla realtà percettiva alle sensazioni. Nell’intervista di Amarilda Dhrami dici che “vorresti passare da un’arte che rende visibile l’invisibile a un’arte che rende visibile ciò che non c’è ma ci sarà”. Vuoi parlarci di questa tua nuova ricerca?

 

 

 

Dall’articolo di Amarilda Dhrami “C’è un fil rouge nella mia pittura”, in Left, 3 settembre 2021.

… La sua passione per la pittura è iniziata prima ancora che dipingesse quando, piccolissima, immaginava storie mai esistite o immaginava di “modificare” il percorso di realtà che non le piacevano (…) Dipingere fu scoprire che questo universo magico poteva diventare materia, poteva durare nel tempo e al limite essere comunicato. Accanto alla pittura in questi 35 anni ha accompagnato Roberta Pugno anche un’altra passione: la storia, ma soprattutto la conoscenza degli esseri umani che avevano fatto la storia, come imparò da Carlo Ginzburg con cui si laureò in Storia moderna e come ritrovò, come dice lei, “in forma scientifica e terapeutica” nel 1980 quando lesse Istinto di morte e conoscenza, il capolavoro teorico dello psichiatra Massimo Fagioli.
Alla mia domanda, “ma come è cambiato nel tempo il suo modo di essere artista” l’artista ha risposto così: “dai primordi di colore, dalle stesure indistinte e dalle forme magmatiche iniziarono a comparire i primi segni: una colata di luce, la curva spogente di un oggetto, la pagina di un libro, il segmento di un profilo. Più il tempo passava e più i protagonisti emergevano dalla “pelle” della tela e avvertivo il pensiero che li faceva nascere”. L’idea della tela come pelle è suggestiva e sembra proporre che lo spettatore dovrebbe lasciarsi andare alle sensazioni e percepire l’opera con la pelle. (…). Nella ricerca sulle ventuno parole di Massimo Fagioli (v. Left 2016-2017, L’Asino d’oro edizioni), Roberta Pugno trova una sfida, nuovi stimoli. Si concentra sul suono: “Sto facendo questo grande salto di passare dagli stimoli della realtà percettiva alle sensazioni. Non è un ricordo, un gesto che mi fa fare un quadro, sono cose più biologiche, più suono, più sentire. I sei volumi di PSICHE e ARTE appena pubblicati propongono proprio la sfida di rapportarsi con una nuova idea dell’essere umano e dell’arte e, grazie anche a questi convegni, la svolta che sto facendo è totalizzante: passare da un’arte che “rende visibile l’invisibile” ad un’arte che rende visibile “ciò che non c’è ma ci sarà”. Perché come le “parole nuove” di Massimo Fagioli danno vita a realtà mentali mai viste e pensate, così gli artisti, da sempre, hanno cercato di dare immagini a realtà non materiali, ritenute spesso inconoscibili”.

 

 

Articolo di Giovanni Lauricella  in “SLASHART arte oltre l’arte” (30 settembre 2022) in occasione della mostra “La sapienza delle immagini”, spazio espositivo Aleph Rome Hotel, aprile-ottobre 2022.

Cercando di informarmi sull’autrice ho scoperto che ha uno sterminato curriculum di mostre, collaborazioni e impegni artistici vari nonchè la pratica di varie discipline artistiche e una laurea in Lettere e Filosofia che son le “sapienze” che usa per le sue opere. Assieme alla potenza delle sue immagini, quello che più mi colpisce di Roberta Pugno è l’impegno di come si pone di fronte al compito di essere artista, un enorme e complesso lavoro che sembra incredibile possa essere fatto da una sola persona che lavora a 360°. Un personaggio dissonante con il mondo artistico che la circonda specie in quest’ultimo periodo caratterizzato da tanta arte “facile”, mi riferisco a tanta paccottiglia pseudo-concettuale, ready-made o quella prodotta da factory di dubbia manovalanza. Faccio questo paragone non a caso perché la pittura di Roberta Pugno viene da un lungo lavoro, un processo tecnico che sapientemente e con dura fatica opera sui suoi quadri che realizza in molti, moltissimi giorni. È un’arte che pare venire da lontano con echi passati, manufatti che sembrano essere sempre esistiti perché si nota qualcosa di sedimentato a lungo, alle volte di consumato. Il fascino di questi quadri è che la proposta estetica è da scoprire: Roberta Pugno mira ad un risultato che va al di là di quello che ha realizzato, un’aspirazione di quello che è oltre la superficie creata. ogni sua immagine è una scommessa che non si limita a puntare in alto ma ad andare verso l’irraggiungibile. Non le basta quello che sono i limiti raggiunti da altri artisti, lei li vuole superare tutti, la sua opera vuole rappresentare quello che sotto gli occhi non c’è, la sua ricerca è nel far pensare e immaginare sollecitazioni fantasiose come se ci fosse sotto un altro quadro. Una lirica dell’immaginario, scatenata da contrasti di accostamenti che si stratificano in particolari effetti visivi e si sommano in un’intensa sensazione, procurando a chi guarda uno stato d’animo sospeso in un’imponderabile dimensione cromatica.

 

 

La conclusione della relazione di Simona Maggiorelli “Considerazioni storico artistiche dalla cave art al postmoderno” in PSICHE e ARTE I (2019 Ass.ne Ipazia Edizioni).

… Vorrei parlarvi di un’opera di Roberta Pugno (Materiamatrice, 2013) che mi è piaciuta moltissimo, perché, in un certo senso, la vedo come un salvataggio dell’arte. Dopo l’azzeramento razionale di Andy Warhold evoca la famosa lattina, ma la salva dalla violenza con una creazione, femminile e assolutamente originale, di riscatto della fantasia, del calore e colore dell’immagine. Certamente Roberta non pensava a Warhold, riferimento se vogliamo insignificante, ma la potenza dell’immagine fa vedere come una ricerca creativa possa ripartire, nonostante lui.

 

 

 

 

 

Dal testo di Simona Maggiorelli, “Le opere d’arte sono immagini silenziose che ci parlano toccando corde profonde”, in IMMAGINEPAROLA (2018 Ass.ne Ipazia Edizioni).

… Ma non tutti sono disposti “a dare l’anima” per poter quotare in borsa la propria produzione. Per fortuna ci sono artisti come Roberta Pugno che, rifiutando i riti imposti dal mondo delle artistar, hanno continuato a fare ricerca, sfidando le difficoltà, provando a sviluppare una propria poetica, senza lasciarsi sviare dalle mode del momento. Cercando, prima di tutto, la realizzazione della propria identità di artista, aprendo con coraggio e coerenza nuove strade anche attraverso un dialogo originale e attualissimo con l’antico, come è riuscita a fare Roberta con questa sua nuova mostra nelle Case Romane del Celio. (…)
Immagineparola. Torniamo all’inizio, a questa seducente espressione, che evoca la creatività del rapporto uomo-donna, da cui prende il la anche questa nuova e articolata iniziativa organizzata dall’associazione Ipazia Onlus e nata dall’incontro fra la pittura di Roberta Pugno e la passione per la ricerca etimologica di Antonio Di Micco.
Immagineparola. Un’espressione che mi fa pensare alla rivoluzionaria ricerca dello psichiatra Fagioli, che ha dedicato tutta la vita alla conoscenza della realtà non cosciente, riconoscendo alle immagini un contenuto di pensiero e parlando di linguaggio delle immagini, come nessuno aveva mai fatto prima. Le opere d’arte sono immagini silenziose che ci parlano toccando corde profonde. Le pitture di Roberta Pugno risuonano attraverso forme e colori in questi spazi “segreti”, evocando antiche pitture rupestri, quelle straordinarie orchestrazioni di immagini realizzate dalle prime artiste delle storia che si avventuravano in cavità nascoste, forse… chissà, per cercare il buio assoluto da cui nascono le immagini, ricreando la nascita.
Come in certe grotte del paleolitico – da Chauvet a Lascaux – dove straordinarie orchestrazioni di immagini assumono la forma di un palinsesto in cui le creazioni più recenti si aggiungono a quelle passate in modo sensibile e originalissimo, anche qui i “graffiti” contemporanei entrano in risonanza con il contesto romano antico, ricreandone gli spazi, dando vita ad un organismo nuovo, vitale, multicentrico e multiprospettico. In questo senso la nuova esposizione dell’artista si presenta come un’opera totale in cui la pittura ridisegna gli spazi evocando profondità e immaginarie aperture. Mentre, a loro volta, questi spazi vetusti e monumentali suggeriscono prospettive inedite ai quadri realizzati da Roberta in epoche diverse ma che – non solo per i colori caldi – sembrano creati ad hoc per dialogare con questo prezioso contesto che la mostra permette di conoscere più da vicino e di vedere con uno sguardo nuovo.

 

 

Intervista di Licia Pastore in “Specchio quotidiano. L’informazione online innovativa” (7 marzo 2012) in occasione della mostra CARTADILUCE, la Feltrinelli di Latina, febbraio-marzo 2012.

– Roberta Pugno, lei torna ospite a Latina con una nuova esposizione, “Cartadiluce”. Conoscendo la specificità dei suoi lavori ci darebbe qualche indicazione su questa mostra e perchè ha scelto questo titolo?
La rassegna a cui sono stata invitata prevede l’uso della carta, una scelta legata al fatto che lo spazio espositivo si trova in una libreria. Ho lasciato da parte tele e materia e mi sono dedicata al nuovo supporto, mio antico amore, che con la sua distesa bianca richiede un lavoro di velature, di presenze leggere, di forme in controluce. Non so, ma vivo il rapporto con la carta come un essere abbagliati dal sole, un uscire dalla caverna. In questa ottica, forse, e ne sono felice, la tela è dipingere la caverna

– Qual è il suo rapporto con l’arte?
L’arte è bellezza, intuizione del latente e del senso delle cose. L’arte è dare immagini, suono, movimento a dimensioni invisibili. E, se posso andare oltre alla bella proposizione di Paul Klee che dice che l’arte è “rendere visibile l’invisibile”, dico che l’artista deve rendere visibile ciò che non c’è. Che non c’è, e, chiedo scusa per la dialettica verbale, che non c’è mai stato, perché non era stato scoperto perché mai pensato. Ci voleva una mente geniale che scoprisse, e qui vado proprio nel difficile, la verità della realtà umana. Una mente geniale che dicesse che l’inconoscibile può essere conosciuto e che l’irrazionale non è animalità o pazzia, ma fantasia. Sto parlando ovviamente della “Teoria della nascita” di Massimo Fagioli, una miniera inesauribile di sfide e di stimoli. La scoperta della nascita e della origine materiale della vita umana ha immesso nella storia del pensiero idee rivoluzionarie. L’inconoscibile si può conoscere, e forse l’arte ha sempre cercato di dire questo.

– Ci spiega meglio come la sua espressione pittorica si lega alla teoria di Massimo Fagioli.
È stata proprio questa straordinaria idea della nascita a spingermi nei primi anni ‘80 alla ricerca sulla realtà psichica. Difficile dire in due parole cos’è la “nascita”. Posso dire che essa avviene per reazione allo stimolo luminoso quando giunge alla rètina, per cui il cervello inizia a funzionare e così la fisiologia del corpo e la realtà psichica. La nascita umana è uguale per tutti. È straordinario! È una teoria positiva e piena di speranza in un mondo così omologante e rassegnato, una teoria che, tra l’altro, e questo mi riguarda, considera il binomio arte-pazzia completamente falso. La sanità non è la normalità ripetitiva: è identità, è saper rifiutare il negativo, è avere un rapporto, se non proprio creativo, almeno costruttivo con la realtà. E così, quando riesco a tenere il filo con la prepotenza di questa teoria che butta a mare in un sol colpo ragione e religione, ecco che questo filo rosso di Arianna mi fa muovere nel silenzio. E in punta di piedi posso scivolare tra idee senza immagine come “ricreazione”, “vitalità”, “memoria-fantasia”…

– Idee senza immagine?
Sì, tento di dare immagini a dimensioni della realtà non materiale, tento di dare forme e colori a mondi profondi: all’incertezza, alla certezza, al rapporto, alla separazione, a quando sei pieno di vitalità, a quando la perdi, a quando vuoi qualcosa, a quando non sai cosa vuoi… Mi interessano le dinamiche con se stessi, le dinamiche con gli altri. Vorrei dare materia alla tristezza, al tormento, alle crisi, ma soprattutto alle riuscite, alla gioia di vivere… Perchè ora so che è nella ricreazione della nascita, nella ricreazione di una sensibilità lontana ma, come dire, presente… la fonte infinita che si può raggiungere quando non c’è più la paura. La paura rende immobili, al più ti fa costruire nello spazio le belle figure della realtà percepibile. Il coraggio invece dà movimento, anzi, il coraggio è movimento. E sappiamo che l’arte vuole rappresentare proprio il movimento del tempo, che forse, è appunto la bellezza.

– Quando ha cominciato a dipingere? Che percorso ha seguito?
Da ragazzina ho avuto la fortuna di frequentare alcuni grandi pittori e scultori. Stare vicino a loro mi dava gioia. Erano le persone più libere che conoscessi. Vedevano il mondo dall’alto e non subivano (così pensavo) condizionamenti da nessuno. Io volevo essere libera come loro. E con il massimo impegno possibile ho continuato a leggere e studiare. Ero certa che la conoscenza, la politica militante e l’arte potevano togliermi una ad una le paure, i sensi di colpa, quelle che ora chiamo “le negazioni”. All’inizio dipingevo universi di colore, mondi magmatici, velature che si sfioravano, sagome incerte da cui affioravano segni e piccole linee. Forse erano già i mondi infiniti di Giordano Bruno, forse era l’utopia di libertà di tutti gli adolescenti. O forse era tutto esterno e l’infinito interno continuava a terrorizzarmi. “Oltre le lune e gli uragani” fu il titolo della prima grande personale a Firenze. E quando nel 1989 mi invitarono ad esporre in Germania opere che “parlassero di me” diedi il titolo “Fast wie eine Meduse” quasi una medusa, medusa di mare. Il cielo era infinito, anche il mare era infinito, ma dentro di me c’erano piccole gocce di veleno paralizzante. Negli anni ‘90 vennero le importanti mostre in Istituzioni e Musei, spesso con indicazioni precise sul tema intorno a cui lavorare: “Matilde signora degli scudi” per il Castello di Canossa, “Gilgamesh re di Uruk” per il Museo delle Mura Aureliane a Roma, “Ladri di fuoco” per l’Istituto Italiano di Cultura a Bruxelles, e ancora “Le audaci imprese io canto” per la restaurata casa di Ludovico Ariosto a Reggio Emilia. Ma dai mondi e dagli abissi del mare erano iniziate ad uscire nuove forme e presenze seduttive: sciamani, eroi, personaggi coraggiosi che sfidavano l’ignoto. Comparvero grandi volti di donna, sorrisi socchiusi, sguardi leggeri. Non sapevo che cercavo l’immagine femminile, la mia… e quella degli eroi. Poi nel 2000, per il 600° anniversario del rogo di Giordano Bruno, mi sentii pronta a lavorare intorno ai grandi temi della sua filosofia. Ma a Roma nel 2000 c’era da festeggiare il Giubileo, e la mostra fu cancellata. Riuscii a portarla tre anni dopo al castello Aragonese di L’Aquila con il titolo “Le voci del rifiuto. Giordano Bruno”. Sono poi seguite altre mostre istituzionali in cui tentavo di andare sempre più a fondo nella ricerca: la realtà psichica come vera forma di conoscenza, l’origine dell’immagine e il suo legame con la scrittura, il rapporto uomo-donna. Fino alle ultime tre esposizioni presso Istituzioni davvero prestigiose: “Materia energia pensiero” a Palazzo Valentini nel 2008, “Nasce da dentro” a Palazzo Venezia nel 2009 e poi “A l’infinito m’ergo” a Castel Sant’Angelo. E tra breve sarò ospite al Museo Bilotti Aranciera di Villa Borghese, sempre a Roma. Una grande soddisfazione.

– In che modo dipinge?
Non uso cavalletti ma dipingo con la tela a terra. Così ci posso girare intorno sovrapponendo strato su strato. Detesto gli assi cartesiani, non voglio un orizzonte né forze di gravità. Il sopra, il sotto, il misurabile e la nitidezza riguardano il rapporto uomo-natura. La coscienza conosce solo la figura delle cose e l’apparenza non mi interessa. Così mi sono inventata questo lavorare a spirale intorno all’immagine che cresce come per conto suo e a me sembra di non avere pensieri ma solo materia e colore che escono dalle dita. Un’opera è riuscita se non la riconosco come mia, come se fosse stato un altro a farla. È riuscita se comprendo dopo cosa ho dipinto, cosa volevo dire. Il che succede anche dopo mesi o anni. Tra inconscio e coscienza c’è quella sorta di “stato sognante” che può andare avanti per moltissime ore in un isolamento quasi ipnotico. E non solo non ci sono i pensieri, non c’è neppure il corpo. Forse è la tela la vera pelle.

– Nella presentazione della mostra abbiamo letto che “c’è una frase incisa nel rosso che, come un filo di seta, cuce tra loro le opere”. Ci spiega cosa vuol dire e quali sono i significati?
Ho intrecciato le nuove immagini ad una potente frase: “La nascita umana / è pensiero / è immagine / per trasformazione / della realtà biologica”. Come ho tentato di dire prima, pensiero e immagine iniziano quando inizia la vita ed emergono dalla realtà biologica: la vita e il pensiero nascono dalla materia. Accade una trasformazione per cui compare, proprio per reazione allo stimolo luminoso, una cosa che prima non c’era: la vita. Nel mio totale ateismo posso dire che l’essere umano nasce per un incontro straordinario tra diversi elementi. “Materia energia pensiero” dice Massimo Fagioli.  Non so. Per tornare al rapporto tra arte e ricerca psichica mi viene da dire che è come se la fantasia e la creazione artistica facessero magicamente il percorso opposto: sentire il movimento invisibile dell’essere umano e renderlo materia. Per tutti.

 

 

Intervista di Cristina Cilli in “Formafluens International Literary Magazine”, (dicembre 2011) in occasione della mostra TEMPO/MATERIA, Remax Place Roma, dicembre 2011-gennaio 2012.

Ti accoglie nei suoi abiti di moderna vestale, Roberta Pugno, nella sua casa atelier. Jeans e morbidi stivaletti di nappa rossi arancio. Dal primo momento che l’ho vista mi è sembrato di scorgere che mi porgesse, dal palmo della mano, una fiamma di conoscenza e saggezza. Saranno quei capelli rossi che formano volute di fuoco attorno al suo viso sottile. Il suo lavoro pittorico, materico e tonale, chiede di essere toccato ancor prima che osservato. È la fascinazione dei quattro elementi che ti rapisce: il rosso magmatico degli sciamani, l’arancione caldo del dio sole, i marroni laboriosi delle viscere della terra, gli azzurri ventosi delle dee del cielo. È quel crepitio di ori, rame e conchiglie, triturate e mescolate con antica sapienza al colore, steso per strati, che insegue un unico filo del discorso, mai uguale a se stesso; è quel crepitio che ti invita al silenzio mentre, infine, osservi le epopee dell’anima e dell’animus stratificate sulle tele di Roberta Pugno. E nel silenzio avverti anche un rumore di pensieri, parole e simboli che aleggiano nell’atelier e che, con segni delicati, prorompono anch’essi dai rilievi sulle tele e dalle incisioni nelle tele, che si lasciano sfiorare. E pare di ascoltare una musica. E mentre mi chiedo come faccia a cogliere l’attimo preciso in cui la materia apparentemente inerte si fa materia vivente, nella vivida armonia di materie, colori e gesti pittorici, mi accorgo che, nelle opere di Roberta, tutto si risolve in una rigorosa coerenza che ti restituisce un’essenzialità meditativa, tanto calda quanto necessaria. Necessaria anche nella poeticità dei titoli dei quadri medesimi: Materiamatrice, Simultaneamente la luce, Tempo interno, Ogni volta diverso, tanto per ricordarne alcuni. C’è un che di archetipale che si profonde: non si tratta semplicemente di echi di civiltà mediterranee, ma di una ricerca che si propaga tra le civiltà perdute di un Mediterraneo che si spinge sino in Medio Oriente, in un dialogo incessante tra l’arte cuneiforme degli scribi e il logos della grecità, alla ricerca di una totalizzante felicità primigenia. Una posizione filosofica che si trasfigura in “immagine tempo pensante. Seduta su un divano di pelle bordeaux, rigorosamente con carta e penna per fermare le tracce della memoria, inizio la conversazione con Roberta.

– Partiamo da una specificità del tuo lavoro, che ben si lega anche con gli intenti della nostra Rivista Formafluens: che rapporto esiste per te, tra pittura e scrittura?
Per quanto mi riguarda più che di scrittura preferisco parlare di immagini-segno, di linea… Ho iniziato lavorando sui caratteri cuneiformi. Mi piaceva la scrittura cuneiforme perché è fortemente legata alla materia: la si otteneva incidendo tavolette di argilla con bambù tagliati…

– Una scrittura che crea una comunicazione materica, quindi?
Sì, fortemente sensoriale… la migliore lettura delle tavolette avveniva la sera quando il sole radente contrastava i pieni e i vuoti… Poi ho lavorato sulla scrittura fenicia, e su quella etrusca… ma qui occorrerebbe affrontare quella straordinaria invenzione umana che è la linea…

– Ma la tua relazione tra il disegno della scrittura e il segno pittorico?
Diciamo che ho per la scrittura un’ammirazione, una invidia quasi; è il massimo di fusione tra espressione e comunicazione. Credo comunque che nel dipingere segni e scrittura vi sia una grande presenza della fantasia. Meno materia hai a disposizione e più la fantasia è costretta ad apportare all’oggetto un movimento “concentrato”, interno. La fantasia stessa è più libera di spaziare, fino a raggiungere immagini, come dire, le più vibranti possibili.

– Vibranti quanto significanti. Le tue lune, sono una forma di scrittura… l’elemento lunare ricorre molto spesso nei tuoi quadri, penso che so, a “Creare ricreare”, però è altrettanto vero che tu dipingi una epopea del Sole.
Sole e fuoco fanno sì che io sia vissuta dagli altri come una pittrice “mediterranea”. Mi muovo dal mondo lunare indefinito verso un mondo solare che dona maggiori certezze.

– C’è un che di esoterico nelle tue affermazione: è proprio della tradizione occidentale prevedere un percorso iniziatico che parta dalle caratteristiche della Luna per approdare a quelle del Sole.
Il percorso verso la bellezza io lo chiamo realizzazione psichica, che è capacità di scendere nella profondità di se stessi con fiducia… È una possibilità che abbiamo tutti e che rende la specie umana diversa da tutte le altre. La mia ricerca sta nel lasciare una traccia la più duratura possibile di tale capacità di entrare nel profondo di sé con gioia.

– Posso dire che rompi proprio con lo stereotipo ottocentesco dell’artista Sturm und Drang? C’è una vitalità in te che fa intravedere con l’arte una relazione amorosa, anziché una travagliata battaglia.
Io parto da un pensiero: tu non sei il mio nemico, ma qualcuno con cui entrare in rapporto. Anche quello che tu chiami Sé interiore, o inconscio che dir si voglia, è “qualcuno” con cui entrare in rapporto, un diverso. Nel senso che tutti abbiamo una integrità iniziale alla nascita che ci rende uguali. Mi viene da dire che nasciamo senza coscienza. La teoria di una “nascita sana”, per chi lavora con l’arte, è una grandissima fonte di energia. Una teoria che contrasta prepotentemente con l’idea del peccato originale, questo pensiero religioso inventato per assoggettare le persone, per impedire loro la realizzazione dell’identità.

– Stai parlando della teoria dello psichiatra Massimo Fagioli…
Sì certo, sto parlando della sua ricerca sulla realtà umana, sull’origine del pensiero e della immagine, sulla sua affermazione che l’essere umano è per il rapporto. Tutti i grandi artisti sembrano solitari e lontani dall’umanità, invece… è proprio per il grande amore e la grande generosità che hanno verso gli esseri umani, che creano opere che muovono emozioni e affetti in persone lontane nel tempo e nello spazio. Esiste sempre un vincolo, come sostiene Giordano Bruno nel “De Vinculis”: siamo sempre in relazione gli uni con gli altri. L’altro da sé è fondamentale perchè è un viaggio di scoperte continue.

– Allora per te l’elemento Terra, che assieme al Fuoco ricorre così tanto nelle tue opere è come una sorta di base di partenza della vita e del rapporto con le persone?
Per me entrare in risonanza fisica è fondamentale. E il mio mezzo di rapporto sono le immagini. Ho dipinto da sempre… poi col tempo, mi sono dotata di una struttura più solida. L’arte è una modalità di conoscenza talmente profonda, insomma non si può pensare di rubare il “fuoco” senza saperlo gestire.

– Nella tua fascinazione per i grandi Eroi, c’entra il tuo rapporto con il tempo?
Io amo i percorsi lunghi: questo è un modo per non lasciarsi bruciare dal fuoco, appunto. Mi sono chiesta dove fossi collocata, dove fosse la mia storia. Non la mia storia contingente. Non c’entravano i miei genitori, non c’entravano neppure le sofferenze infantili che pure ho vissuto: io volevo andare oltre. I miei genitori non erano i miei referenti nel lungo percorso, non era a loro che volevo mostrare la mia interiorità o chiedere approvazione. Io avevo gli Eroi e con loro mi confrontavo.

Come è arrivato l’incontro con Gilgamesh?
Come ti dicevo gli Eroi erano i miei referenti: andavo da loro, ne sperimentavo le caratteristiche, felice di tornare ogni volta con qualcosa in più. Nel mio peregrinare, mi dicevo: “Vai in quella parte di Storia che la scuola non insegna”. È così che mi sono imbattuta nei Sumeri che erano pacifici, evoluti, intelligenti. Hanno inventato la scrittura, non a caso. Gilgamesh è un eroe che vive in una società civilizzata. Molti dei racconti presenti nell’epopea di Gilgamesh sono stati poi ripresi dalla Bibbia che si è autodefinita la prima Scrittura. E non è vero.

– Il Diluvio Universale, ad esempio…
Sì, certo. Invece sono i rapporti umani il nucleo fortissimo dei miei eroi. Quando Gilgamesh incontra Enkidu, un guerriero forte quanto lui, non lo combatte come avevano istigato gli dei, ma ne diventa amico. Enkidu, allevato dagli animali, è un uomo primordiale, ma viene iniziato alle arti della civilizzazione da una donna, una prostituta sacra, che in sei giorni e in sette notti d’amore, gli insegna la bellezza.

– Nell’epopea di Gilgamesh, Shamkat attraverso il rapporto sessuale rende l’uomo civilizzato, lo rende più intelligente. Tutt’altra storia dalla terribile tentatrice Eva che rende il maschio peccatore, per non parlare di Lilith…
È una visione della immagine femminile positiva, direi rivoluzionaria. Per certi versi c’entra la potenza della Dea Madre molto diffusa nel Medio Oriente. Per non parlare della fondamentale recente scoperta che la donna è stata la prima a fare le pitture rupestri, la prima ad esprimersi con le immagini.

– E in tutto questo come entra il tuo rapporto con Giordano Bruno?
Sono convinta che Giordano Bruno avesse una immagine femminile fortissima: lui si ribella come solo le donne sanno fare. Dietro di lui c’è Ipazia, non dimentichiamolo. Ma occorre sapersi ribellare, questo è il segreto! Come dicevo prima bisognar saper usare il fuoco. Gli eroi suicidi non sono l’unico modello possibile.

– Vorrei tornare al tuo originale uso della materia nei tuoi quadri. Qual è stato il percorso?
Beh, ho bruciato alcuni pavimenti e arredi per fare le mie sperimentazioni. Non avevo leggi né regole da seguire visto che non ho voluto fare l’Accademia e ci sono arrivata per prove ed errori. Il mio intento era quello di portare dentro la pittura la forza della scultura (frequentavo gli studi degli scultori tedeschi) e l’invisibilità del suono (ho fatto molti anni di Conservatorio). Dalla fusione della potenza della scultura con la leggerezza della musica volevo ricavare la profondità delle immagini.

– Ecco, infatti tu fai un grande uso proprio dei colori della scultura: oro, bronzo, rame.
Sì, ho la necessità di sperimentare i “colori della materia”. Oro bronzo e rame hanno in sé una forte astrazione, sono privi di connotato figurativo. Mi interessa dare l’immagine della materia come magma incandescente che nasce da dentro.

– Tu curi molto i titoli dei tuoi quadri.
È nel titolo che cerco di comunicare il pensiero che sta dietro la realizzazione di ogni mio quadro. Il titolo più è corto, più è pregnante, come la poesia.

– Ma quando ti accingi a dipingere, sono i sogni o le visioni ad ispirarti?
No, non i sogni, ma le visioni. L’arte è un sogno ad occhi aperti, ovviamente tutto diverso dal delirio. Dipingo anche dieci ore di seguito, quasi in uno stato autoipnotico, così posso lasciare sgorgare cose che, per incanto, hanno poi vita propria.

– E le simbologie che utilizzi, da cosa scaturiscono?
I simboli arrivano alla coscienza come concentrati di realtà. Sono delle visioni. Sono monadi, per dirla con Giordano Bruno. Sono forme concentrate di pensiero-energia che necessitano di una specifica forma espressiva e della materia.

– E però, poi… in tanta materia astratto-simbolica, nei tuoi quadri emergono anche dei volti…
Si tratta di forme di colore come quando ti avvicini al volto dell’amato che si fa indistinto e diventa tutta la realtà. Così, quando dipingo il volto, lo distendo, lo dilato come se si trattasse di un abbraccio.

 

 

Intervista di Diletta Zerilli (febbraio 2006), in “Giordano Bruno L’universo tutto infinito fuori e dentro di noi”, catalogo della omonima mostra a Palazzo Altieri Oriolo Romano (VT), aprile-ottobre 2006.

– Letteratura, archeologia, storia, filosofia: come hanno trovato una strada espressiva comune questi interessi tanto differenti tra loro e come si legano al suo essere pittrice?
Sono interessi solo apparentemente molto diversi, in realtà hanno una matrice comune, cioè studiano tutti l’essere umano, si chiedono chi è, quale è la sua storia, come si esprime. Da una parte ci sono i miei studi classici e filosofici, e dall’altra c’è il fatto che dell’essere umano mi ha colpito da sempre la sua capacità di creare immagini. Per cui la mia pittura, più che seguire un percorso prestabilito, nasce da una dimensione, come dire, di “assecondamento” di quanto mi viene da dentro.

– In che modo si è avvicinata alla pittura?
Direi che è la pittura che si è avvicinata a me! È come se fosse sempre stata dentro di me… Sin da bambina avevo l’esigenza di esprimermi, di fare uscire concretamente i miei mondi fantastici, o semplicemente avevo voglia di dire come vedevo le cose e le persone. Così i disegni e i ritratti che nascevano spontaneamente sul foglio erano il mio mezzo di comunicazione preferito, a volte l’unico.

– Come nasce la sua ispirazione e la scelta dei temi?
Me lo chiedo anch’io da dove nasce l’“ispirazione”, quella “insorgenza interna” che ti porta a fare una cosa che prima non c’era. Direi che la passione nasce da movimenti interni a noi sconosciuti, nel senso che non li possiamo determinare prima, ma che sono reali, presenti, a volte prepotenti, e che creano una spinta a “liberare” le sensazioni e le dimensioni più profonde. Per quel che riguarda i temi, i miei cicli… tutti in fondo ruotano intorno al problema della conoscenza. Qual è poi il rapporto tra pittura e conoscenza, è un discorso molto complesso.

– Che legame c’è tra la sua pittura e la sua realtà, la sua vita?
Se la domanda si riferisce al rapporto con la realtà, diciamo, percettiva, quella della coscienza, le mie immagini, credo, colgono gli stimoli della realtà esterna, ma poi li deformano, un po’ come succede nei sogni, per cui la matrice a volte è appena riconoscibile, ma spesso la reazione va, come dire, per conto suo. E allora un incontro, un pensiero o addirittura una storia d’amore diventano quasi un pretesto. La vita… la mia vita personale si intreccia fortemente con la pittura, nel senso che se sto bene o mi fanno stare bene dipingo in un certo modo, se sto male, in un altro. Ma non è detto che ad un dolore corrispondano immagini buie e cupe, anzi, a volte ti escono immagini leggere e fresche . Deve essere per un discorso di resistenza e di vitalità; non certo per la banale idea di compensazione. La leggerezza e il movimento o ci sono o non ci sono.

– Nella società attuale molte donne, nel loro legittimo desiderio di emancipazione, tendono a negare le differenze tra i sessi e a ricalcare spesso schemi comportamentali maschili. In gran parte delle sue opere troviamo invece riferimenti al principio maschile e a quello femminile, intesi come elementi differenziati e quasi antitetici. Nella sua visione questi due principi sono opposti ma complementari come lo sono nella filosofia taoista, lo yin e lo yang?
Una cosa è l’emancipazione, che riguarda la sfera sociale e professionale, e lì si deve essere tutti uguali, un’altra cosa è l’identità personale in cui ognuno è diverso, e questo tanto più tra uomo e donna. Quelli che tu chiami principio femminile e maschile sono realtà assolutamente diverse, e quanto più sono, diciamo, se stesse, tanto più sono differenti, e per complicare le cose, tanto più sono diverse e tanto più si attirano, si piacciono… Insomma, tornando a noi, posso dire che la mia ricerca pittorica sull’immagine femminile e maschile, questo tema uomo-donna, è vero, forse ha un legame con la filosofia, con un discorso scientifico… penso a quel concetto secondo cui ci può essere conoscenza solo se il soggetto che fa ricerca non coincide con l’oggetto che è indagato. Se qualcosa è uguale a te, non lo puoi conoscere, solo il diverso può essere oggetto della conoscenza e, se posso dirlo, dell’amore. Deve essere per questo che ho voluto dare una immagine femminile persino a Giordano Bruno, cioè mettere in una mostra sul pensiero bruniano, volti di donna.

– Come è nato il ciclo sulla controversa figura di Giordano Bruno?
Penso che la natura umana sia positiva, anzi, penso proprio che sia sana. Più precisamente l’essere umano nasce sano, poi eventualmente si ammala… cioè sono convinta che la spinta dell’uomo in generale sia di andare verso qualche cosa, e in particolare verso l’altro essere umano, per cui se uno ha di più, non è detto che lo usi contro l’altro… È da questi pensieri che nasce il mio amore per gli “sciamani”, per gli “eroi”, per coloro che, trovandosi, per fortuna o per crescita personale, un di più, lo danno agli altri. Si tratta ovviamente di una idea assolutamente in antitesi con la teoria dell’homo homini lupus. Il geniale Giordano Bruno era tanto generoso quanto coraggioso, non solo perché rifiutando di abiurare, andava consapevolmente incontro alla morte, ma perché, lasciamelo idealizzare per un attimo, considerava le sue idee come una sorta di bene collettivo da difendere più della sua stessa vita.

– Nel De gli eroici furori Giordano Bruno elogia il “furioso”, cioè chi ricerca eroicamente la verità e non obbedisce ad altri impulsi se non a quelli razionali, contempla – uso il suo linguaggio – la natura come unità e infinità e supera tutte le distinzioni che inquinano la vera fonte di conoscenza, cioè l’intuizione del principio unico dell’universo. Lei come si pone rispetto a tutto ciò, si sente una “furiosa”?
Sì, sono una “furiosa” nel senso bruniano… Mi stava venendo in mente che anche Ludovico Ariosto usa il termine furioso per parlare di Orlando, ma lì ha il significato negativo di pazzo… Però devo contestare la domanda. Per Giordano Bruno l’“eroico furore” è un impulso appassionato e, diciamo, irrazionale che non ha niente a che vedere con la ragione e la razionalità. Quando usa il termine ragione intende mente, intelletto. Aveva l’assoluta certezza che non era l’approccio razionale quello che faceva avvicinare alla verità. Un discorso un po’ diverso vale per il “De umbris idearum”, testo in cui Bruno parla non tanto di un percorso verso la conoscenza attraverso la “mente”, quanto di quello che Hilary Gatti propone come metodo dell’approssimazione. Nel “De umbris idearum” è detto che la conoscenza avviene attraverso l’ombra dell’oggetto, attraverso l’immagine e l’idea dell’oggetto stesso.

– Che ruolo ricoprono nelle sue creazioni il lavoro con la materia e l’uso del colore?
Non so mai se sia più importante la materia o il colore; ho come l’impressione che la materia sia colorata. Le superfici in cui vi è un rosso, sono aree di fuoco, mentre se invece emerge un blu o un azzurro, c’è la sensazione dell’attraversare. Attraversare l’aria? L’acqua? Non so.

– Nelle sue tele forme e diverse materie sovrapposte danno l’idea, la percezione, l’ombra dell’essere umano. Tutto questo lascia ampio spazio all’immaginazione che plasma e fa emergere l’immagine da un fondo indefinito come da un magma remoto e misterioso. Ricerca il principio vitale della creazione?
Santo cielo che domanda! Provo ad usare altri termini… Direi che, certo, è da sempre che cerco la vitalità che è all’origine della creatività, posso dire che io lavoro, per quel che riguarda la mia visione del mondo, nell’indeterminato e nell’indistinto. Per me l’immagine nasce principalmente dalla indeterminatezza.

– E qui si deve proprio citare Giordano Bruno: “In comune il pittore e il filosofo hanno il compito di contornare con linee l’ombra di un corpo umano”… Lei ama molto la geometria. Ama le forme pure?
Mi interessano gli archi di cerchio più che il cerchio… e non sono particolarmente attratta dalle cosiddette figure geometriche pure. Con la geometria cerco di esprimere una dimensione non tanto spaziale quanto piuttosto temporale: una certa geometria si ingrandisce, poi ritorna piccola, poi diventa un angolo, e alla fine si accende di un minuscolo fuoco. Ecco, prima si parlava di raccontare: con le forme astratte io racconto così.

– Per Giordano Bruno “la forma è l’anima universale la cui facoltà primaria è l’intelletto che è il vero fabbro del mondo”. Condivide questa affermazione?
Certo, anche se mi interroghi su una frase molto complessa. Ti rispondo con un’altra proposizione di Bruno, questa invece limpidissima “Riguardo alle cose potenti tutte mutarono a modo loro, ve ne è una sola che muta a modo suo tutte le cose: la fantasia dell’uomo”.

 

Foto di C. Primangeli e V. S. Moriello

 

 

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